domenica 26 ottobre 2014

Dimitrio, quel santo vestito d'amianto

In questi ultimi giorni di Ottobre, vuoi il clima proto-invernale piombato tra capo e collo, vuoi  perchè tra il 25 e il 28 del mese nelle strade si susseguono alcuni tra gli eventi più importanti dell'anno, la città è in fermeto. Tre gli appuntamenti più importanti: la celebrazione del Santo Patrono della città, Agios Dimitrious, la parata degli studenti e l'ottantaseiesimo anniversario dalla liberazione nazi-fascista.  
In teoria non avrei dovuto prender parte a nessuna di esse, in quanto dovevo andare a Sofia, ma causa mlatempo ho deciso di rimanere in città. Di solito in Italia, per quello che ho visto e conosciuto, la processione e la celebrazione del Santo Patrono vengono fatte nello stesso giorno, qua a Salonicco no, la processione viene fatta il giorno prima. Mancata, alla grande. 
Decido quindi di andare a vedere i Vespri nella chiesa omonima del Santo perchè in casa dopo un pò viene noia ma sopratutto perchè voglio finalmente scoprire le differenze tra i riti ortodossi e quelli cattolici. 
La basilica di Agios Dimitriou è molto interessante per la sua storia, si narra che in epoca bizantina fosse la seconda basilica più grande dell'impero e tra le sue mura si sono alternate a più riprese nei secoli la fede cristiana e quella musulmana. A guardarla sia dall'interno sia dall'esterno la basilica assomiglia ad un patchwork di stili diversi, dai capitelli bicolore rilfesso di un improbabile gotico italiano, alla presenza della cripta, dalla divisione trittica in navate con tanto di gineceo al secondo piano, alle cupole rotondeggianti sintomo del passaggio musulmano. 
All'esterno ragazzi rom cercano di venderti le candele, ne tengono una manciata tra le mani, molto sottile e di colore scuro; poco più in alto un altro venditore di candele, professionista, ne vende una moltitudine di svariate dimensioni. L'aria è fresca, frizzante. Seguo il flusso dei pellegrini venuti a dimostrare la propria devozione attraverso la pratica del bacio dell'icona. 
Avevo già visitato la chiesa, di giorno, in versione feriale, con pochi fedeli e alcuni turisti, oggi è un'altra storia. La prima cosa che mi colpisce è la luminosità: due bei lampadari illuminano la navata centrale e, in fondo, la cupola dorata a mosaico amplifica l'effetto donando un che di maestoso a tutto l'ambiente. La seconda cosa che mi colpisce è il caos, per la gente che va e viene in maniera disordinata tra le navate per baciare le varie icone e reliquie presenti nella chiesa. Ad un tratto mi sembrano tutti partecipanti di un gioco a punti: chi bacia più icone ottiene un premio, chessò, una reliquia ossuta. Tuttavia ecco alla mia destra l'unica coda ordinata,  si snoda lungo la navata laterale: decine di persone in attesa per l'oggetto più importante, l'urna con i resti del santo ritrovati tra il 1978 e il 1980 e da allora custoditi nella chiesa.
Mi guardo intorno, anziani, famiglie con bambini, giovani, tutti che si muovono, che cercano la propria reliquia da baciare e la chiesa ne offre veramente tante. Io invece sto ferma, aspetto che accada qualcosa e i 'pope', i preti ortodossi barbuti e vestiti di nero cominciano a passarmi accanto sempre più frequentemente. Alle 18.30 le campane iniziano a suore a dal presbiterio esce un pope con una lunga barba bianca, il tradizionale cappello nero ed un mantello di colore rosso, sale verso lo scranno di legno sulla destra e in poco tempo inizia a cantare. E' un momento particolare, la voce dei sacerdoti è imponente, bassa, traccia una melodia che mi ricorda il tono stentorio e salmodiante di Giovanni Lindo Ferretti in alcune canzoni dei CCCP. Il misticismo è da queste parti e si può toccare con mano, in questo momento il rito sembra avere più somiglianze con i canoni orientali che con quelli cattolici: tutti i preti che ho sentito cantare in Italia intonavano degli ave maria talmente svogliati da far passare la voglia anche alle perpetue. 
Nel frattempo continua il gioco delle luci, dal presbiterio due preti più giovani vanno avanti ed indietro con grandi candele, le stesse che la gente può comprare nel grande bancone di legno alle mie spalle.

Quasi nessuno canta con il pope, lui va avanti nella sua declamazione che immagino più rosario che messa. Poi, come due gemellini, si fanno gli altri due sacerdoti che, posate le candele, tengono tra le mani un turibolo  e cominciano la benedizione. Mano a mano, partendo dal pope, scendono lungo tutta la navata. Voglio fare una foto ma mi accorgo di essere troppo in mezzo,  a forza di σιγνωμη σιγνωμη guadagno un degnissimo posto in seconda fila.
Sulla destra la coda non accenna a diminuire, tra i fedeli arrivano molti ragazzi giovani con l'alta uniforme della marina, nulla di strano tra due giorni della parata. All'uscita decido di rivolgermi ad uno di essi per capire un pò di più l'evoluzione della serata: "che succede adesso?" - gli chiedo- "fanno una messa, continuano a pregare?". Lui forse non capisce il senso della domanda, si avvicina un suo collega che mi dice che è la festa del santo, mi chiede di dove sono.
Sul momento non avevo collegato ma poi ho capito perchè queste parate sono così connesse, calendario a parte ovviamente, anche Demetrio di Tessalonica, il santo, era un soldato, un martire. In tutte le icone in cui compare indossa un'armatura e si erge in piedi in posizione triofante, senza barba, al contrario degli imponenti pope vestiti di nero che continuano a sfrecciarmi di fianco.
Ho deciso che è arrivato il momento di andare. Nella borsa custodisco gelosamente un dolce con noci e pan di spagna caramellato comprato nella pasticceria di fianco alla chiesa.  Mentre mi allontano vedo sul bordo della scalinata  un uomo che vende palloncini, poco più in là, dietro al venditore di icone, un uomo vende del the caldo. Ci starebbe proprio bene con il dolce comprato prima in una pasticceria vicina. A passi svelti mentre la voce del pope risuona dagli altoparlanti, l'ennesimo rimando ad un oriente sempre più vicino.

mercoledì 15 ottobre 2014

Mezedes, Tsipouro e Capossela

In fondo come si dice?! Italia-Grecia mea faza mea raza, stessa faccia stessa razza. E' il tipico ritornello che tra compatrioti portiamo avanti con popoli della nostra risma, quelli del mediterraneo diciamo.
Qui c'è il sole, il mare e, al posto del mandolino, c'è il bouzouki ma tant'è, ci siamo capiti. 
Complice "In debito", il bellissimo documentario di Segre e Capossela, nonchè del libro di quest'ultimo "Tefteri", avevo un importante obiettivo da portare a termine: trovare una bella ταβερνα in cui bere tsipouro e ascoltare il blues tradizionale greco, il rebetiko. Questa musica potrebbe essere definita come uno tzatziki blues, un genere arrivato in Grecia con esuli dell'Asia minore in seguito al conflitto con la Turchia nei primi anni 20' del XX secolo e al successivo 'scambio di popolazione'.
Adesso vi racconterò del mio primo, attesissimo incontro con questo topos greco. La giornata stava volgendo al termine e dopo l'ufficio stavamo parlando tra di noi volontari quando ad un certo punto alle mie orecchie è arrivata la parola rebetiko. Alcuni colleghi stavano seguendo per un loro progetto un artigiano i strumenti musicali tradizionali e, tramite lui, vengono a sapere di una serata all'insegna di questo particolare tipo di musica che viene suonata utilizzando la chitarra, il bouzouki, il baglamas e il tamburello.  Decido di unirmi alla spedizione.
Le vie intorno a piazza Aristotelus che di giorno brulicano di persone di notte si trasformano diventano solitarie e oscure. Da Egnatia, l'arteria principale di Salonicco che divide la parte del lungo mare e del porto da quella in salita verso l'Ano Poli,  svoltiamo a destra in una strada occupata da un cantiere stradale e da una grande insegna che ricorda quella dei cinema di una volta. Siamo arrivati.
La taverna non è grande, due ambienti seprati da un muro a vista,all'interno non più di una decina di tavoli che ricordano quelli delle osterie nostrane: robuste sedie di legno e tovaglie bianche di carta. Quello che colpisce di più sono i colori ed i particolari del locale, la parete in fondo, dove è situato il palco con gli strumenti, è rossa e in alto spicca uno specchio. Alle pareti molte fotografie dei musicisti che si sono esibiti qua durante gli anni e grandi tavolate. Ci sediamo, siamo numerosi e quindi conquistiamo il tavolo da sei dall'altra parte del muretto, nella parte lontana dal palco. All'interno del locale altre due tavolate prettamente maschili che sembrano ad uno stadio già avanzato nella degustazione di cibo e alcol.
Mentre cerco di decifrare le parole incomprensibili nel menù alzo il naso verso le pareti circostanti, ci sono un bellissimo orologio con i numeri al contrario, una frase , un altro specchio , una chitarra ed altre fotografie. Veronica, l'unica autoctona della nostra tavolata, ci salva dall'imbarazzo della scelta. Vogliamo bere lo tsipuro, che per il sapore assomiglierebbe molto al celeberrimmo ouzo, ma è di fatto una grappa, decidiamo quindi di prendere delle mezedes,degli stuzzichini, una specie di tapas alla greca. I ragazzi installano tutta l'attrezzatura video ad un lato del tavolo in modo da superare l'ostacolo del muretto e puntare la telecamera sul palco. Nel frattempo arriva acqua e tsipuro. In Grecia funziona che da qualunque parte ti siedi, che sia un bar o un ristorante, ti portano una bottiglia d'acqua. Lo tispuro è servito in simpatiche mini bottiglie personali, una a testa, da versare nel bicchiere con del ghiaccio o dell'acqua, o entrambe. Io scelgo un bel tsipuro on the rocks. Parte il primo brindisi: ghiamas!.
Mentre gli strumenti sul palco giacciono ancora abbandonati in solitudine la nostra serata inizia ad animarsi,dagli altri tavoli come ondate si levano brindisi e risate e altri commenti a me incomprensibili ma dai visi rubicondi degli astanti deduco che si stiano divertendo parecchio, magari sono nella loro serata libera da mogli, madri o altri occhi guardinghi. Arrivano finalmente le mezedes: alici sott'olio, una specie di frittata con pomodori e feta, patate al forno con buccia, una specie di aringhe sempre sotto olio, formaggio, salse. Avevo fatto bene a stare leggera a cena, forse ero già consapevole del ripassino.
E' bello mangiare tutti insieme e condividere il pasto spizzicando da un piatto all'altro, conferisce all'atto del mangiare un sentimento di comunità, dello stare insieme, tutto è sul tavolo, tutto si deve dividere in modo che ognuno possa assaggiarne un pò. Mentre sforchettiamo, tagliuzziamo e splamiamo i musicisti guadagnano il palco e iniziano a suonare. Stasera la formazione è ridotta all'osso chitarra e bouzouki per suonare un rebetiko schietto come lo tsipuro per colpirti direttamente allo stomaco.
Le prime canzoni sono squisitamente strumentali e disegnano geometrie sonore che richiamano il vicino oriente, progressioni sbilenche che , ad un certo punto, si azzoppano su un semi-tono e su un andatura claudicante. Se la chitarra da corpo e ritmo, è il bouzouki a colorire le melodie con i suoi suoni particolarmente acuti emessi dalle otto corde accordate di due in due in re-la-fa-do. E' difficile da descrivere l'emozione di sentire per la prima volta dal vivo questo tipo di musica. Lo tsipuro, le mezedes, questo locale dai colori accesi, il rumore che sale dalle tavolate, il rembetiko, tutto come me lo ero immaginato.
Sulla strada sta passando una bella ragazza, è giovane ed ha un vestito attillato, in breve tutta la tavolata di fronte a noi si gira con un movmento a prova di torcicollo, partono applausi e risate e fischi, in un altro contesto avrei bollato tutto questo come un maschilismo retrò ma stasera ci sta, mi immagino di essere non più nel 2014 ma nel 1964, altre epoche, altre convenzioni. I musicisti iniziano a cantare.
Nel rebetiko è descritto come blues greco perchè, come nel blues, i suoi testi sono sempre struggenti e dolorosi, si parla di chi ha perso la propria libertà perchè è finito in prigione o perchè ha perduto il suo cuore in un amore impossibile. Tsipuro e rembetiko vanno decisamente d'accordo, bere per dimenticare, bere fino ad ubriacarsi perdutamente. Πινω και μεθω, bere e ubricarsi fino a perdere coscienza, questa è la canzone intonata dai musicisti. Si leva un'ovazione generale fatta di battimani e cori, evidentemente questo è un classico del repertorio.
Dallo specchio in fondo alla parete si erge il coppino del suonatore di bouzouki e l'aureola da domenicano della sua nuca. Quello specchio, quella parte, mi suona un pò troppo familiare. E' una scena che ho già visto da qualche parte, sicuramente sul documentario. Possibile? Possibile averlo beccato già al primo tentativo? Per fugare ogni dubbio lo chiedo al proprietario del locale che sta ritirando i piatti delle mezedes, "per caso conosce un musicista italiano? si chiama Capossela?". "Si Vinicio Capossela, è venuto qua qualche tempo fa a suonare". Non ci posso credere, al primo tentativo ho beccato uno dei mitici locali del documentario. Questo aumenta di molto la soddisfazione per la serata. Intanto lo tsipuro è finito, mi guardo intorno e penso alla bellezza di questa serata, al clima di convivialità che si respira, alla musica popolare, per una volta autentica, cantata con sincerità non lo stornello picaresco di qualche osteria trasteverina per turisti americani. Penso che da noi tutto questo si è perso, penso alle osterie cantate da Guccini, che oggi sono scomparse, roba da libri di storia.
I musicisti finiscono di suonare e il proprietario porta ache sul nostro tavolo, a mò di offerta, una specie di pane quadrato tagliato a cubetti molto piccoli. Un piatto solo con sei forchette. Come i moschettieri festeggiamo la serata unendo le nostre forchette e agguantando un quadratino di questo pane molle e dolce che sa di miele e cannella, d'oriente.




domenica 5 ottobre 2014

η αρχή, che l'avventura cominci

Eccomi dunque arrivata da meno di una settimana in terra greca nella città dai molti nomi: Thessaloniki, Salonicco per gli italiofoni (un rimando alla grandeur veneziana dell'epoca moderna che in queste terre spadroneggiava). 
Perchè un blog? Se state leggendo questo post significa che ho superato alcune reticenze mentali che mi rendevano diffidente da questo strumento intendendolo più come un diario pubblico che come mezzo di informazione. Invece, un pò per imitazione di alcuni colleghi in loco un pò perchè ritengo che possa rappresentare un utile esercizio di scrittura, ho deciso di aprirne uno per raccontare questa esperienza di Servizio Volontario Europeo (SVE o EVS per gli amici internazionali).
A presto dunque, o come dicono da queste parti: σύντομα.
.